Il percorso dell’etica: metafora del cammino della vita
(Nota: traduzione e sintesi dal testo ”Etica esperanzada y esperanzadora“ di Juan Masià, spagnolo, teologo gesuita, Professore di Etica all’Università Sophia di Tokio dal 1970 e attualmente professore di Bioetica a Osaka e Matsuyama, in Giappone, vittima di attacchi inquisitoriali, per le sue teorie biogenetiche non perfettamente collimanti con quelle del Vaticano)
Un viaggio: l’itinerario lungo o breve che percorriamo verso una meta, un punto di arrivo. La vita dell’uomo segnata da questo viaggio. Non è un caso che i primi cristiani chiamassero la nuova fede che guidava la loro esistenza, come “ la strada” ( odòs, in greco).
- Andiamo verso una mèta, sconosciuta o sperata, rimossa o cercata . Ciò che sostiene o resta incofessato nell’orizzonte dei nostri sogni, delle aspirazioni inedite di ogni persona.
- Ogni strada è costellata da indicazioni e segnali, consegnati dalla storia dell’uomo o costruiti nelle sua perenne rincorsa del nuovo, del cambiamento, di percorsi più sicuri per raggiungere il punto di arrivo .
- Sovente questo percorso è interrotto da biforcazioni ed incroci, ostacoli inaspettati. Occorre superare , scegliere e decidere. Sovente soli, a volte in compagnia delle persone amate, delle comunità di vita o di collettive cittadinanze condivise.
- E gli incidenti? Inevitabili, imprevisti sbandamenti; scontri nel traffico o nelle ore di stanca solitudine.
1. Similmente ad un viaggio, ogni decisione etica è solcata da questi quattro processi che ne caratterizzano o condizionano lo sviluppo.
La metafora del cammino è comune, sia in Oriente che in Occidente. Nel vocabolario etico giapponese incontriamo tra le altre espressioni fondamentali dell’ Etica, affermazioni come “ conservare” il cammino; il cammino “da percorrere”; il cammino che “rende umano” l’essere umano. In queste affermazioni non si enuclea solamente un principio generale, ma anche un aspetto fondamentale: come trovare il modo di essere umani, che ci renda buoni e veramente felici.
I codici della strada moderni ed i vecchi segnali lungo i bordi delle carreggiate, ci permettono di viaggiare sicuri verso la giusta direzione. Esistono regole che guidano colui che viaggia o è al volante di una macchina. Applicando all’Etica, troviamo in essa regole e principi di moralità e principi che regolano eventuali conflitti tra le varie norme. Tutto questo delimita il campo delle norme, dei principi, degli obblighi, dei criteri di giudizio. E questo si riflette nel linguaggio quotidiano. Così i giapponesi lo connotano con le espressioni “camminare nel sentiero adeguato”, viaggiare “secondo le regole convenute”.
Le motivazioni etiche possono esser fonte di libertà oppure di oppressione. Occorre chiedersi: quali sono i valori che costruiscono umanità? Quali le motivazioni che spingono ad umanizzarci? Queste domande riguardano la personalità di ognuno di noi e sono ben più importanti del chiedersi ciò che è permesso o ciò che è proibito. Non è tanto importante la domanda sul “che fare”, quanto quella su “come essere”; non conta tanto chiedersi quale azione buona compiere o quale cattiva evitare, quanto “ come vivere” (in giapponese si parla di ikikata, cioè “di stile di vita, di modo di vivere”, parola che viene anche usata per tradurre il concetto di “ spiritualità”).
A questo concetto miravano sia Aristotele che San Tommaso, interrogandosi sulla vera felicità e finalità della vita: “ciò che devo fare?” “chi voglio essere? perchè voglio vivere ? cosa ci fa realmente felici?” Filosofia, antropologia ed etica sono inseparabili.
Rispettiamo le regole sulla limitazione di velocità nel traffico, non solo per paura di una multa, ma anche perchè riteniamo che al di là della regole, esistono valori ulteriori; ad esempio quello del valore della vita umana. Dunque, al di là della norma “non uccidere” (che riguarderebbe un approccio “secondo”), esiste il giudizio sul valore della vita umana (di primaria importanza) in quanto desiderabile, ammirabile, degna di essere salvaguardata e protetta.
Questo primo blocco tematico si occupa del mondo dei valori, dei fini e delle grandi motivazioni ideali dell’etica. Ognuno dovrebbe interrogarsi sul sistema di valori in cui fonda la propria vita. Ci si disporrebbe così ad un confronto e ad un dialogo tra diversi modi di affrontare la vita o di proporsi finalità da raggiungere. Se questi interrogativi che ci dobbiamo fare e dobbiamo mutuamente porre, li estendiamo alla storia, otterremo una gamma di risposte: chi pone il valore supremo nell’utile, chi nel piacere, chi nella libertà, chi nell’indipendenza, ecc. Secondo l’impostazione che si dà a queste visioni, si otterranno diversi progetti di umanità.
Oggi, ad esempio, il mercato è diventato l’unica vera ideologia del presente. La logica del consumo ha sostituito riferimenti e valori che avevano nelle ideologie il loro riferimento. Le scelte si fanno alla luce del criterio dell’utilitarismo.
Prevale la logica degli interessi particolari, del piccolo gruppo.
Prevale una concezione privatizzata dell’esistenza (i temi dominanti risultano: piacere, felicità, autorealizzazione, desiderio).
2. Continuando con la metafora del viaggio, fermiamoci sui segnali: questa è la funzione delle norme e dei principi nel cui solco si sviluppano i valori.
Il precetto “non uccidere” esprime il rispetto per la dignità di ogni vita umana. Ma sorgono conflitti; ad esempio una persona è minacciata di morte e si vede obbligata a difendersi. Si formula allora il principio della legittima difesa. La norma trova una specificazione. Emergono poi situazioni di abusi ed allora nuovamente la norma viene dettagliata, ad esempio, “se posso difendermi senza uccidere, dovrò farlo”. Si presentano inoltre situazioni estreme; quando ad esempio un determinato gruppo ritiene che per difendersi, deve ammazzare i potenziali assalitori per impedirne un possibile attacco. Ci opporremo ad un tale modo di intendere il principio della legittima difesa perche legittima mezzi ingiusti per raggiungere un fine giusto. La ragione è semplice “Il fine non giustifica i mezzi”. Ci riferiamo così ad un principio previo per spiegare una norma. Norma che a sua volta è strumento per realizzare un valore. Se trascuriamo quest’ultimo, cadiamo nel rischio di assolutizzare le norme, dimenticando che esse sono a servizio dei valori.
Norme e principi, non vengono rimossi, e neppure una loro applicazione prudente. I principi non vengono posti ai margini, però non li si idolatrano. Allo stesso modo occorrerà evitare lo scoglio opposto “decidere caso per caso”, senza far riferimento ai valori. Nè etica prefabbricata, nè etica senza criteri di riferimento. Alcuni orientamenti di base dovrebbero poter convivere con uno stile di flessibilità in grado di adeguare casi concreti e norme generali. Inoltre questa flessibilità si realizza alla luce ed in base ad alcuni valori ed al nostro modo di intenderli. Questo è il filo conduttore dell’etica “dubitativa” che tento di specificare nella riflessione, adattandola con l’antropologia della debolezza umana.
Certamente questa forma di etica lascerà insoddisfatti coloro che pongono eccessiva fiducia nelle norme e nei princìpi. Occorrerebbe solamente leggere i medesimi ( norme e princìpi) alla luce di un’etica che sa interrogarsi e “ammirare”. Prendiamo un esempio dall’uso della grammatica.
E’ normale nell’insegnamento l’uso dell’indicativo: “S è P”; “P è così o cosà”; in etica invece è normale che abbondi l’imperativo: “Questo si deve o non si deve fare”. Però sarebbe un disastro porre questa modalità di ragionamento come unica o fondante dell’etica. Quando esprimiamo in forma di lode una nostra reazione di fronte ad un valore etico, od esprimiamo la nostra indignazione di fronte alla sua mancanza, noi usiamo grammaticalmente nel linguaggio, il segno dell’ammirazione.
Una persona si è buttata in acqua per salvare una bimba caduta nel torrente. La reazione è ovvia: “Ammirevole!“ E forse ci si riconosce incapaci di fare altrettanto. E tantomeno potremmo imporlo a tutto il mondo come obbligo. Però ammiriamo in questo atto un valore etico che umanizza chi lo compie e chi ne è testimone. Caso opposto: accanimento di gesti violenti e stupro su un minorenne. La reazione di indignazione è normale e si esprime grammaticalmente con un linguaggio di ammirazione: “Orrendo!” Esprimendoci in questo modo, sottolineiamo la nostra indignazione per la mancanza di etica o per la presenza di valori negativi che disumanizzano chi li compie e , per inciso, si ripercuotono sulla società.
Invece di una sempice applicazione di princìpi astratti a casi concreti, si ripensano le norme alla luce di ogni caso inedito. Tutto questo si fa attraverso un dialogo sincero con altre persone, evitando di trasformare in idoli sia il razionalismo, come l’individualismo o l’autoritarismo. E per far questo occorre molta capacità di dialogo, di atteggiamento aperto e di relativizzare il proprio punto di vista. Inoltre, al di sopra e al di sotto di ogni scelta, si richiede una attitudine che sappia andare oltre ogni norma e principio ed oltre ad ogni situazione, che sappia intravedere i valori e le motivazioni di maggior peso, in grado di relativizzare sia le norme come le situazioni.
Questo stile di etica non confonde come irresponsabile una situazione errata, nè propone un’ unica soluzione per ogni problema. Non si è in Matematica, ma nell’Etica. Una risposta o decisione che lì per lì sembrano errate, possono invece essere moralmente corrette, responsabili, se interpretate dal punto di vista di chi le ha compiute. Due stesse risposte, un sì ed un no, possono essere ugualmente corrette da un punto di vista etico, non per il fatto che siano o no errate, ma perchè è stato o no responsabile il processo di scelta che ha portato ad esse.
3. Proseguiamo nell’esempio del viaggio. Non basta aver chiara la meta e seguire le indicazioni; possono presentarsi segnali di pericolo, incroci e deviazioni, che rendono problematico il cammino.
Con il discernimento morale cerchiamo di rispondere a situazioni difficili e piene di incertezze. I tradizionali manuali morali, normalmente applicavano il principio ad un determinato caso particolare, ma non sempre ciò era possibile. Situazioni inedite che rendono inutile l’uso di uno specifico principio, poichè non solo il principio è inadatto per affrontare particolari situazioni, ma la loro stessa complessità interroga, pone in crisi il principio.
Possono emergre anche situazioni di conflitto tra le stesse norme. Che fare? Ricordiamo i cinque passi del discernimento etico: a) atteggiamenti di base con cui affrontare una determinata situazione; b) Dati specifici che ci informano sulla stessa situazione, c) riflessione onesta sui dati stessi; d) sostegno da parte di altre persone che ci accompagnano nel processo decisionale; e) presa di decisione secondo la propria coscienza, con il rischio di sbagliare , ma con responsabilità.
Quando siamo ad un incrocio ci chiediamo” Quale strada scegliere?”. In mancanza di segnali chiari non ci resta che informarci. Si sceglie una strada, non sicuri che sia quella giusta. Così nella morale si trovano “incroci” difficili, dilemmi angosciosi, conflitti delicati che richiedono discernimento. In linguaggio letterario e poetico in giapponese si parla di “lasciarsi guidare da un buon cuore” e di “autentica sincerità”. Capita anche di “deviare” o “sbagliare strada”, termini tipici del buddismo. Cosa fare quando abbiamo deviato? Come cambiare direzione, se ne siamo ancora in tempo?
Di fronte alle incertezze, possono venire utilizzate diverse tipologie di espressione/reazione dei soggetti.
Per cucinare bene, sosteneva san Tommaso, occorre conoscere le ricette; però non basta, occorre anche fare tesoro sia dei risultati raggiunti sia dei fallimenti. I soli princìpi, senza la verifica pratica di risultati e fallimenti, sono come una semplice ricetta, non verificata dalla realtà. Come quando si guida un’auto. L’uso del freno in caso di necessità, verifica l’abilità del principiante. Nell’etica, l’abuso del freno, provoca il risultato opposto: schiacciare l’acceleratore non serve per niente ad uscire dal dilemma tra moralismo e permissività. Abbiamo bisogno d’aver riflessi pronti per dosare l’uso di freni ed acceleratore con il volante, per trovare soluzioni creative di fronte a situazioni inedite.
Di fronte a questi esempi dobbiamo chiederci: perchè si cucina, perchè si guida? Per necessità, per convenienza, per piacere, o per altre ragioni…? Il campo delle motivazioni acquista a questo punto un rilievo particolare. In questo modo si pone in evidenza se un’etica è creativa o ripetitiva, aperta agli interrogativi o pura dispensatrice di risposte preconfezionate. Qui subentra il bisturi della revisione, della verifica, per avviare un processo di approfondimento e sviluppare un’etica “interrogativa”, in sviluppo.
Passiamo ora ad un’altra espressione di etica che si esprime in forma di ideale, aspirazione, desiderio. Ad esempio diciamo: “Anch’io vorrei essere come quella persona!”. Non siamo capaci di fare altrettanto, ma lo vorremmo; o almeno, vorremmo che fossero tante le persone nel mondo che facessero lo stesso. Parlando in questo modo, esprimiano un ‘etica in chiave desiderativa. Prima abbiamo ammirato una persona che si butta in acqua per salvarne un’altra; poi abbiamo detestato una persona che ha compiuto violenze su un’altra. Sia questa ammirazione come questa indignazione, manifestano le nostre reazioni di fronte a valori o antivalori e si collocano al di qua delle formulazioni etiche in base a dei principi, imperativi, norme. Infatti per quest’ultime usiamo formule imperative, ed esprimiamo l’etica con la chiave dell’imposizione, dell’obbligo. Non dobbiamo però dimenticare che essa si basa sui valori che prcedentemente abbiamo ammirato o denigrato con il linguaggio dell’ammirazione.
Esiste anche una formula avversativa dell’etica, quando affermo “Non uccidere!” richiamando il valore della vita espresso nell’ammirazione o la contrarietà ad ogni sua conculcazione, nella formula della deprecazione. Ma sono sorte situazioni in cui il non uccidere è stato arricchito da un però…ogni volta che l’uso della forza legittima, veniva riconosciuto come mezzo unico per difendere la propria vita. Si fece allora una precisazione sul non uccidere. La nuova formula recita “ Non uccidere, se non quando…”. Ci troviamo quindi di fronte ad una formula avversativa dell’etica che ci lascia spazi per tracciare possibili eccezioni al principio generale appena enunciato.
Ma la vita continua. Si apre lo spazio a nuove esperienze che danno luogo ad abusi, sotto il pretesto dell’eccezione. Emerge allora la necessità di riformulare il principio che ha determinato le vecchie norme. Siamo dunque nuovamente costretti a sfumare i principi, a precisarli con ulteriori aggiunte. “Non ucciderai, tranne che nel caso di legittima difesa”; ma quest’ultimo vale a condizione … E ci troviamo di fronte nuovamewnte ad una espressione avversativa che obbliga a riformulare il principio.
Dove si situa dunque l’etica interrogativa che stiamo propugnando? Non è tanto una prospettiva, quanto un intreccio tra tutte queste varie tipologie di espressione/reazione che abbiamo elencato: l’ammirativa, l’imperativa e l’avversativa. Potremmo chiarire che le espressioni di etica ammirativa stanno alla base, quelle in chiave interrogativa illustrano il metodo, e quelle imperative ed avversative emergono da una riflessione sull’esperienza della fragilità e della debolezza della natura umana; riflessione che ci obbliga a rideterminare le norme ed i principi proprio per essere fedeli ai valori di fronte a concrete situazioni.
4. Nonostante le precauzioni capitano gli incidenti.
Così nell’etica. Ci accorgiamo alle volte di aver urtato qualcosa con l’auto solo quando rientriamo nel garage. Che fare quando ci accorgiamo dopo, di aver sbagliato ? “Come far fronte ad un fallimento etico”? Una reazione normale è quella di non riconoscere i fallimenti morali oppure scoraggiarsi quando li constatiamo. Siamo ai due estremi; o assenza di rimorso o colpevolezza patologica. L’alternativa è la riconciliazione liberatrice. Ad esempio il perdono in senso evangelico o la fiducia radicale secondo il buddismo amidista.
Parlo di fallimento, non di peccato in senso morale, per abbracciare una più ampia problematica. Un fallimento, un errore, una debolezza morale, non sono necessariamente un peccato. Possono costituire un fallimento rispetto ad uno dei tre passaggi precedenti: errore nel percepire i valori o nel vivere atteggiamenti adeguati nei loro confronti (primo aspetto); errore nel determinare i principi o le norme (secondo aspetto); errore – ed è il caso più frequente – nel valutare e decidere responsabilmente in coscienza (terzo aspetto). Ma si pone il problema di come imparare dai fallimenti o dai risultati precedenti, sia a livello personale come comunitario.
Imparare dai fallimenti presuppone anzitutto di riconoscerli, di accettarne la responsabilità. Molti fatti di cronaca, rivelano quanto sia sempre più difficile intravvedere nei protagonisti la percezione ed il riconoscimento della gravità del loro gesto, il rimorso per quanto compiuto, il senso di vergogna della propria azione.“ Proviamo a restituire senso alla parola vergogna. Nell’ accezione che qui ci interessa la vergogna corrisponde al sentimento di colpa o di mortificazione che si prova per un atto o un comportamento sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti, riprovevoli. È una parola da ultimo molto utilizzata al negativo: per escludere, sempre e comunque, di avere alcuna ragione di vergogna (…) La vergogna e la capacità di provarla appaiono qualcosa da allontanare da sé, una sorta di ripugnante patologia dalla quale tenersi il più possibile lontani. . Così come il dolore, la vergogna è un sintomo e chi non è capace di provarla – siano singoli o collettività – rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia della civilizzazione”. (Gianrico Carofiglio, in Repubblica, 28/07/09).
Il percorso della decisione etica fin qui descritto, affronta l’aspetto prevalentemente personale della decisione etica (secondo coscienza). Resterebbe da approfondire tutto il versante dell’etica collettiva: una comuntà-Stato quali valori di riferimento si pone ? In base a quali norme li concretizza in leggi, disposizioni, pratiche politiche, scelte economiche…? Quali criteri guidano la comunità nei momenti di emergenza, nelle scelte più impegnative ? Infine, con quali strumenti verifica e corregge la rotta per salvaguardare il perseguimento costante del bene comune…? Ci sarebbe da chiedersi se oggi in Italia non prevalga invece l’abitudine a costruirsi un’etica, a proprio uso e consumo. Il soggettivismo etico sembra imperante, ha pervaso ogni settore della società italiana: la libertà di “ essere se tessi” e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale connota le grandi e picole “ furberie” che caratterizzano l’attuale nostro convivere. “Italia rassegnata e furba, senza senso del peccato”: così il presidente del Censis, Giuseppe de Rita, pennella la situazione del nostro Paese in una interessante intervista a La Stampa del 3 marzo 2010.
Ad ogni modo dovremmo riconoscere che la meta di un’etica autenticamente dinamica, è una sfida fondamentale. La si ricerca, la si pensa e la si vive, elaborandola facendo un cammino con altre persone, attraverso fallimenti e conquiste, aiutandosi reciprocamente per stare sulla strada.
L’etica capace di dialogo favorisce l’autonomia e la crescita autentica delle persone, invece di soffocarne lo sviluppo con un’esagerato richiamo a norme esteriori e, allo stesso tempo, favorisce la consapevolezza del valore di un’etica collettiva.
(Pubblicato in Omaggio a L. Azpitarte, La Morale Cristiana come Proposta, 2004 – Traduzione a cura di Armando Pomatto. I capoversi in corsivo non fanno parte del testo di Juan Masà)